28 febbraio 2015
Sono in viaggio da circa 31 ore, viaggio con treni espressi in categoria sleeper (questo vuol dire i più economici e lenti). Ho lasciato il Darjeeling, a nord est, per dirigermi verso ovest. Prima tappa Khajuraho.
Ieri sera, nel delirio più totale di una delle tante stazioni indiane ho dovuto “arrendermi”. A volte capita che devi fidarti! E qui in India, dove è tutto confusione pura, dove nessuno parla inglese, dove tutti ti dicono “Sì” anche se non capiscono neanche cosa gli hai chiesto, a volte devi affidarti. Alle volte al caso, alle volte alle persone. Chiedo sempre al cosmo di mandarmi dei segnali da riconoscere e ieri è accaduto di nuovo. Ero seduta accanto ad un ragazzo in attesa del treno, il viso di questi indiani è sempre duro. Ho diffidato di lui, ma nell’attesa di 5 ore (ritardo treno) abbiamo parlato molto ed io ho riconosciuto i segni. Kedar ha gli occhi ed il profumo di un mio caro amico e questo mi basta per sentirmi al sicuro. Mi sono fidata di lui e ho fatto bene. Si è preoccupato per me, mi ha accompagnato al mio posto e, al risveglio è venuto ad assicurarsi che stessi bene portandomi un chai (the con latte e spezie).
Nel corso della giornata, nell’indifferenza degli altri passeggeri, ho ricevuto aiuto “da casa” da parte di Priyanshu (ragazzo di 17 anni conosciuto durante il primo viaggio in treno). Mi fa compagnia, mi spiega che con un’app sul cellulare lui controllerà l’arrivo del mio treno e mi dirà quando scendere (qui al di là delle ore di ritardo, è difficile comprendere anche il nome delle stazioni) mi dice che per prendere il prossimo treno devo cambiare stazione, mi dice quanto devo pagare il tuk tuk… e tutto fila liscio. Scendo quando me lo dice, prendo il tuk tuk al suo prezzo e arrivo in stazione con solo 45 minuti per andare in bagno, lavarmi le mani, cercare del cibo e il nuovo treno da prendere. Mi dice che dati i tempi stretti non ci si potrà vedere, ma appena scendo le scale per raggiungere la piattaforma 8… lui è lì ad aspettarmi. Mi emoziono a tal punto che dimentico che, qui in India, il contatto fisico è concesso ai minimi termini. Lo abbraccio, lo ringrazio, lo bacio sulle guance e lui mi tende la mano. Sorridendo. Mi accompagna allo scompartimento, firma la mia bandiera di viaggio ed io rischio di amputarmi due dita con la grata di ferro del finestrino.
Mi dice che è contento di vedermi, mi porge un pacchetto con la frutta, mi dice che posso fidarmi di lui e che da oggi ho un amico indiano. I suoi occhi limpidi ed il suo sorriso puro mostrano completamente chi lui sia. Continuo a ringraziarlo ma lui mi dice che, in amicizia, non è necessario farlo. Piango di gioia e gli dico che sono proprio fortunata. Lui dice che la fortuna è di entrambi.
È tempo di saluti, ci stringiamo le mani tra le grate del finestrino e mi dà appuntamento in Rajasthan. È tutto così strano.
Nuovo treno, nuove incognite, nuove ore di ritardo, nuovo viaggio. Posiziono i miei bagagli ed intorno a me solo indiani. Ad un tratto si avvicina lui, Dharmalam “mi scusi madame, questa è la mia famiglia“.
Rimango stupita. Mi presenta tutti i membri: madre, padre, cognato, sorella, due nipotine, sorella minore e moglie. Mi sembra tutto così strano, ma è reale. Siedo con loro, mi faccio spiegare perché ogni donna della famiglia indossa abiti diversi, sua moglie è avvolta in un sari bordeaux tempestato di pietre e perline, le si scorgono solo gli occhi, le altre no. Mi viene concesso di vederla in viso e ridere con lei solo quando si allontana il suocero (si devono coprire in presenza del padre del marito). Dharmalam è una sagoma, capisco che posso anche scherzare. Gli dico che sua moglie è bellissima e lui la guarda con tenerezza. È l’unico che parla inglese e traduce tutto. Mi viene concesso anche di giocare con le bimbe. Tengo in braccio la più piccola, forse ha un anno, e faccio il solletico alla più grande, forse tre anni. Sono felice. È ora di cena quando lui mi dice che sua moglie vuole che mangi con loro. Non posso rifiutare. Chissà quando mi ricapita. Faccio la battuta: basta che non sia Dal Bath. Ridono tutti. È fatta. Mi vogliono bene.
Ecco ora immaginatevi 9 indiani e la sottoscritta, seduti vicini vicini a condividere la cena. Ridono perché non mangio piccante, ma le patate con i chapati sono fantastiche. Lui ordina a sua moglie di darmi l’acqua (pani) ed io li faccio ridere intonando il tormentone indiano imparato in Nepal… pani, pani, pani… auh auh… sunny sunny sunny… auh auh…
Dopo cena ringrazio regalando loro una stecca di cioccolato. Si illuminano. Forse non la mangiano spesso. Lui inchina la testa per ringraziarmi, la bimba grande ha occhi che urlano di gioia, la piccola mi manda baci con la manina. Dio mio… quanto sono felice.
Il sapore di questa giornata indiana è racchiuso nel chai di Kedar, nella cena della famiglia di Dharmalam e nell’uva di Priyanshu.
A presto da una nuova latitudine e longitudine di vita.